Ieri sera, finalmente, ho visto “C’era una volta a Hollywood”,
il nono film di Quentin Tarantino, regista che mi ha
fatto appassionare ad un certo tipo di cinema – facendo egli cinema d’autore e
riuscendo clamorosamente, allo stesso tempo, a coinvolgere le masse. Una delle cose
che ho apprezzato di più, è stato vedere la sala, che contava circa duecento
posti, quasi piena; questo mi ha dato un po’ di speranza, magari il cinema che
conta non è davvero morto. È un film, questo, che deve essere gustato al cinema,
su grande schermo, per sentire nota per nota la meravigliosa colonna sonora, ma
soprattutto per cogliere tutti i particolari e per godere della grandiosità
della regia del buon Quentin – che tocca vette altissime, con ottime
inquadrature e riprese dall’alto come poche volte aveva fatto.
“Once upon a time in Hollywood” è una grande dichiarazione d’amore
per il cinema tutto; soltanto leggendo il titolo si coglie l’omaggio a Sergio
Leone e al suo “Once upon a time in America” e, inoltre, pensiamo subito ad una
favola. È un titolo perfetto per questo film, calza a pennello. Poi, nel corso
della pellicola, non mancano gli omaggi al cinema italiano – che Tarantino ama
alla follia – e alla Hollywood di fine anni ’60, così ricca di contraddizioni.
Tarantino, inoltre, ama citarsi più e più volte; è autoironico,
gioca sui suoi stereotipi, come potrete notare, e ci fa divertire per tutto il
corso della pellicola grazie a queste chicche.
La trama del film ruota intorno a tre personaggi: Rick
Dalton, celebre attore di spaghetti western e film d’azione, interpretato da
Leonardo DiCaprio, che sembra migliorare di film in film con le sue incredibili
performance; il secondo protagonista è Cliff Booth, lo stuntman di Rick e suo migliore
amico; infine, c’è Sharon Tate, la prima moglie di Roman Polanski, interpretata
da Margot Robbie. I primi due personaggi sono attori ormai stanchi, sull’orlo
della depressione: Tarantino sui due ha lavorato tantissimo, caratterizzandoli
alla follia, arrivando a farceli amare nonostante tutti i loro difetti. Purtroppo,
qui debbo fermarmi prima del previsto, perché questo film, molto lento nella
prima parte, è costruito apposta per il finale che, vi assicuro, sarà esplosivo
ed esilarante. Vi basti sapere che siamo a Los Angeles, tra il ’68 e il ’69 e Rick,
con la sua bellissima villa, è il vicino della Tate e di Polanski.
Come ogni film di Tarantino, esso andrà visto svariate volte
per essere compreso fino in fondo; però, secondo me, non ci troviamo davanti ad
un’opera perfetta: esso è davvero leggero e spensierato, con solo un filo di
tensione, in secondo piano, che cresce nella seconda parte della storia; molte
sono le scene in macchina, probabilmente superflue, quasi riempitive; inoltre, troppa
è l’attenzione sui due attori protagonisti, che si mangiano la scena, così che
la Robbie arriva ad essere usata maggiormente per la sua straripante bellezza
piuttosto che per le sue straordinarie doti recitative, come abbiamo potuto
assistere nel bellissimo “Tonya” (insomma, non le è permesso di recitare al
meglio delle sue capacità, in poche parole). Infine, la piccola attrice che
lavora in uno dei Western di Rick Dalton è straordinaria e dimostra grande
affinità con DiCaprio, ma purtroppo, il duo dura ben poco e anche questo aspetto
è stato, a mio modesto parere, poco sfruttato.
Bene, siamo arrivati ai titoli di coda: “C’era una volta a
Hollywood” è il nono film di Tarantino ed egli, come molti di voi sapranno, ha detto
più volte di volersi fermare a quota dieci. Quindi, questa dovrebbe essere la
sua penultima perla. Un film che impareremo ad amare come tutti gli altri. Eppure,
secondo me, Tarantino è attualmente fondamentale per la situazione che sta
vivendo il cinema d’autore (come ho detto, è un regista che porta milioni di
persone al cinema, anche molti giovani!, come ho visto ieri, una cosa rara,
oggi come oggi …), perciò il suo potenziale addio equivarrebbe a una tragedia;
è per questo motivo che dovremmo pregare, ogni sera, affinché il regista nato a
Knoxwille ci ripensi e continui a sfornare un capolavoro dopo l’altro, come ha certamente
fatto con “C’era una volta a Hollywood”.