Visualizzazioni totali

domenica 29 dicembre 2024

LONESOME DOVE: EPOPEA WESTERN

È il 1985, negli Stati Uniti d'America siamo in piena epoca reganiana, ma al medesimo tempo escono due romanzi in controtendenza, due western: il più noto, “Meridiano di sangue”, scritto da Cormac McCarthy, e “Lonesome Dove”, di Larry McMurtry. Al secondo, però, spettano gli elogi maggiori, perché la critica lo premia l'anno seguente con il prestigioso Premio Pulitzer per la narrativa. Ma cosa ha spinto la giuria del Pulitzer a premiare un romanzo western proprio nel 1986, quando le storie predilette erano le scalate al successo a Wall Street? Lonesome Dove è non solo un’epopea western che raggiunge le quasi 1000 pagine, che ha al suo interno centinaia (non scherzo) di personaggi, dunque parliamo anche di un romanzo corale; è stato definito “Il signore degli anelli in salsa western”. In un certo senso può ricordarlo. Ci sono personaggi memorabili, l’epica, una missione da compiere, dei cattivi ben delineati. Non sembra di assistere ad un’opera di Sergio Leone, quanto ad una di John Ford. Gli Indiani sono i cattivi della storia, fanno paura a tutti. Popolano gli incubi degli americani, discendenti dei coloni europei. Gli indiani, i nativi, sono stati mezzi sconfitti, ma alcune terre le bazzicano ancora loro. I messicani, invece, vanno impiccati, non si va molto d’accordo con loro. È l’America divisa, vasta, immensa, rurale. È l’America crudele, individualista, dura, arida. 

Non ci sono ancora le città moderne, o se ci sono appaiono irraggiungibili (come la San Francisco desiderata ardentemente da Lorie). È già presente, tuttavia, il tema del sogno americano: i protagonisti (la compagnia) decide di spostare una vasta mandria da una zona all’altra del Paese (dal Texas al Montana, i due poli opposti degli States) in cerca di ricchezza e di un futuro migliore. 

I maschi del libro sono malinconici, piangono di nascosto, hanno quasi tutti sprecato la loro giovinezza in cerca di fama effimera. I giovani, invece, sognano di diventare dei cowboy, il premio più alto a cui un uomo possa ambire in un mondo selvaggio come quello. 

Le donne in “Lonesome Dove”, invece, sono stereotipate, ci sono tantissime prostitute. Eppure i personaggi più forti sono proprio quelli femminili, e forse anche quelli caratterizzati meglio, con tutti i loro sogni, le loro paure e il loro coraggio di voler cambiare la propria vita. Le donne, anche se succubi di un mondo maschilista (il fucile, nei western, si sa, è simbolo di virilità), sono di gran lunga più intelligenti della loro “controparte” maschile: Lorie>Jack, Elmira>July, Janey> July, ancora lui, Clara>Bob. 

Le scene maggiormente riuscite sono a sorpresa non tanto quelle di azione, ma quelle più introspettive, molto spesso intime e sempre un pizzico malinconiche. 

Esilaranti, invece, i botta e risposta tra il capitano Call e il suo braccio destro Augustus (Gus), i due principali protagonisti dell’epopea, due vecchi popolari Texas Rangers con immensa esperienza e saggezza; il primo più taciturno e pragmatico, l’altro più esuberante e divertente, sempre con la battuta pronta. I dialoghi tra loro due sono scritti benissimo e faranno divertire parecchio il lettore. 

Questo libro mi ha fatto sorridere in più punti, spesso mi ha fatto ridere, a pagina 856 mi ha fatto perfino piangere. E questo vuol dire che un libro del genere regala emozioni forti al lettore, questo è poco ma sicuro. È un libro che si prende il suo tempo, che si chiama “Lonesome Dove”, in onore della cittadina (uno sputo in mezzo al nulla) dove parte la storia ma che poi, da pagina duecento, non vediamo più: un po’ come se “Il signore degli anelli” fosse stato chiamato “La Contea”. E questa cosa mi ha fatto sorridere. Il titolo italiano, invece, “Colomba Solitaria”, è stato accantonato con il corso del tempo, per una valida ragione. 

È un libro, pensate, che poteva durare benissimo altre mille pagine, perché verso il finale c’è una accelerata ben visibile, come se McMurtry non vedesse l’ora di mettere un punto alle vicende della Compagnia - cosa che in realtà non farà mai del tutto perché continuerà a scrivere di questo mondo con un prequel, “Il cammino del morto”, dedicato all’ascesa dei nostri due Texas Rangers; e con un sequel, “Le strade di Laredo”. Larry McMurtry, capace anche di vincere un Oscar alla migliore sceneggiatura non originale per il cult del 2005 “I misteri di Brockeback Mountain”, ha visto molti dei suoi romanzi trasposto felicemente per il grande schermo, come il capolavoro “L’ultimo spettacolo”, il cult “Voglia di tenerezza”, con Jack Nicholson e Shirley McLaine, il classico “Hud il selvaggio” e altri ancora. Anche Lonesome Dove è stato trasposto, ma non per il cinema, bensì per la televisione, in una lunga miniserie, con attori del calibro di Robert Duvall, Tommy Lee Jones, Danny Glover, Steve Buscemi, Anjelica Huston e Diane Laine. 

McMurtry, texano doc, si è spento non molto tempo fa, nel 2021, a 84 anni. Nella sua Archer City, una cittadina che conta soltanto poco più di mille anime e che forse ricorda un po’ l’immaginaria Lonesome Dove, lo scrittore aveva aperto nel 1987 una libreria, Booked Up, che aveva finito col contenere circa 400.000 testi (!), attirando turisti e lettori da tutto il paese. Con la sua dipartita, però, il futuro della preziosa libreria è incerto, ed è stata acquistata da un vecchio concittadino divenuto famoso per la trasmissione del programma televisivo “Casa su misura” ... 







giovedì 19 dicembre 2024

IL FILM SU DONALD TRUMP: THE APPRENTICE!

Questo film biografico del 2024 narra principalmente l’ascesa nel campo immobiliare del giovanissimo Donald J. Trump, anche e soprattutto per merito del celebre e spietato avvocato Roy Cohn, il vero e unico mentore del futuro presidente. 

Ho amato il fatto che questa pellicola giochi molto con i filtri (e sono uno che non ha amato il chiacchierato “Skinamarink” per il suo essere forzatamente patinato): la prima parte, infatti, che descrive gli anni ‘70, è classicamente patinata come i filmati in super8; la seconda, che tratta i “favolosi” anni ‘80, sembra come uscita da una vecchia VHS. 

Ali Abbasi aveva un compito molto difficile nel realizzare il biopic su Donald J. Trump, una figura così dirompente, controversa e dominante da ben mezzo secolo a questa parte. Stiamo parlando dell’Imperatore dell’Occidente, dopotutto. 

Ebbene, il regista iraniano naturalizzato danese - per di più al suo primo film in lingua inglese - se ne esce alla grande, secondo me, con una prima parte per forza di cose più coinvolgente della successiva, perché si vede la genesi del giovane e acerbo Donald; e una seconda parte più introspettiva e descrittiva  dove vengono elencati i successi e le sconfitte di Trump in tutti i campi della sua vita, da quella d’affari a quella amorosa e familiare. 

I due attori principali fanno a gara di bravura tra di loro per tutto il corso della pellicola: Sebastian Stan (il Soldato d’Inverno nei film Marvel), diventa letteralmente D.J.Trump, imitandone perfino le classiche movenze, senza sembrare patetico o forzato; ma è Jeremy Strong a rubare la scena, perché è davvero tosto, donando anima e corpo per caratterizzare al meglio il suo personaggio e farlo svettare su tutti gli altri. Per quanto possa valere, Strong “deserves a nomination”, merita una candidatura ai prossimi Premi Oscar, credetemi. E qui mi tocca aprire una piccola parentesi su chi è stato realmente Roy Cohn, nell’arco di tutta la sua vita, ovvero un celebre avvocato che ha costruito una carriera imbevuta di un fortissimo anticomunismo - è stato infatti il viceprocuratore federale nell’infame processo ai danni dei Rosenberg, oltre ad essere stato il consulente capo del temibile senatore McCarthy - e impuntata anche sulla corruzione e ritorsione, aspetti che vengono ben descritti nella prima parte di questo film, quando facciamo la sua conoscenza, insieme al giovane Trump, che a sua volta viene affascinato e stregato da questo mondo di illegalità ed eccessi. Cohn era un personaggio complesso, molto forte e autoritario ma anche (probabilmente) omosessuale, in un’epoca dove ai gay era vietato persino d’occupare rilevanti cariche pubbliche, per esempio. Un mondo, quello, combattuto ipocritamente anche dallo stesso avvocato, che nascondeva la sua “diversità”. 

A metà anni ‘80, però, dopo essere stato radiato dall’albo per quello che aveva combinato in tutti gli anni di servizio, l’avvocato si ammalò come molti di AIDS, fatto passare dallo stesso per un cancro al fegato fino all’ultimo dei suoi giorni. Molto di tutto questo viene trattato nel corso del film, rendendo questo personaggio più interessante del protagonista, per lunghi tratti. Non so quanto sia romanzato il tutto e quanta importanza abbia effettivamente avuto l’avvocato nella crescita e nella vita stessa del giovane imprenditore, ma nel film i due sono connessi da un legame quasi indissolubile. Più di amicizia, ma di certo non amore. Quasi dipendenza, però. 

Inoltre, viene ripescata anche Maria Bakalova (anche lei proveniente di recente dalla Marvel, dai Guardiani della Galassia vol. 3) per interpretare la storica prima moglie del tycoon, l’ex modella cecoslovacca Ivana. 

La regia di Abbasi è fenomenale e riesce a valorizzare i suoi virtuosismi. Gli zoom e i dettagli ricercati, invece, funzionano sempre nei film biografici. La colonna sonora è piena zeppa di grandi canzoni del periodo trattato, passando dai Suicide (70s) ai New Order (80s). Il finale è buono, ma non eccelle (ci si poteva inventare qualcosa di più, in effetti), sembra quasi la fine di una prima parte, ti aspetti quasi di vedere il “to be continued…” sullo schermo, alla fine dell’ultima inquadratura! 

Questo 2024 è stato davvero un anno dominato dall'ingombrante figura di Donald Trump, tra l'altro da poco eletto personaggio dell'anno dal "Time". Ovviamente, lo è stato a livello politico, con la netta vittoria nelle elezioni più roventi di sempre, ma anche con l'attentato nei suoi confronti e, in dosi molto più piccole, in campo artistico, con l'uscita del film appena descritto, tra l'altro a ridosso delle elezioni americane.   

Ed ecco le tre regole del successo per il duo Roy Cohn-Donald Trump, quasi un mantra in questa trasposizione: 

1) Attacca, attacca, attacca 

2) È vero quello che io dico che è vero 

3) Mai, mai, mai ammettere la sconfitta, dichiara sempre che hai vinto: SEMPRE. 


- <<Sembra la politica estera americana degli ultimi 25 anni…>>

- <<Ma a differenza di quella, questa funziona davvero.>> 



venerdì 6 dicembre 2024

ANORA, DAI BASSIFONDI ALLA PALMA D'ORO

Immaginate di essere un giovane regista, classe 1971, proveniente dal New Jersey e di avere pochissimo in mano, se non altro una smisurata passione per la settima arte, coronata dal collezionismo di vecchie locandine. Immaginate di realizzare diversi film con pochissimi mezzi, uno di questi addirittura con soli tre IPhone 5S. Arrivate però ad avere un buon riscontro della critica perché avete talento e, il vostro nuovo film, avrà addirittura un budget di 6 milioni di dollari (comunque una cifra irrisoria nel settore) … ma in qualche modo riuscite a portarvi a casa la Palma d’Oro al Festival di Cannes! Bene, è quello che è successo a Sean Baker giusto qualche mese fa. Il sogno americano, che tanto viene criticato nelle sue opere, per lui è divenuto finalmente realtà. Baker ce l’ha fatta. Il prossimo passo potrebbe essere l’oscar, chissà. 

Il film, nonostante abbia 6 milioni di budget e sia arrivato facilmente al pubblico mainstream, rispetta lo spirito indipendente del regista e riesce allo stesso tempo ad essere il suo film più maturo. Tuttavia, è il film di Baker che presenta più scene di interni, come quelle del night club e quelle nella sfarzosa villa. 

Il film si suddivide in tre parti ben distinte, nei classici tre atti: nel primo facciamo la conoscenza di Anora - che ama farsi chiamare Ani - e che lavora come spogliarellista nei classici night club americani, in questo caso nel sobborgo russo di Brooklyn, New York. Una notte, però, si presenta un giovanissimo ragazzo, Ivan - che ama farsi chiamare Vanja - in vacanza dalla lontana Russia. Anora viene chiamata per parlare con lui, poiché è di origini russe anche lei e conosce benissimo la lingua. Tra i due nasce una certa complicità e per Anora, Vanja, rappresenta un qualcosa di differente dai soliti clienti di mezza età. Successivamente la ragazza verrà invitata nella villa del giovane russo dove le verrà proposto di diventare la sua ragazza <<esclusiva>>, ma solo per 15.000 $. Vanja è in realtà il ricco figlio di una ricchissima famiglia russa, i Zacharov, dove il padre ha una non meglio specificata importanza come uomo d’affari.

Per Anora è come aver trovato la gallina dalle uova d’oro, in buona sostanza. Piano piano tra i due, a sorpresa, nasce anche un sentimento speciale. Insieme agli amici di lui, i due viaggiano con aerei privati fino a Las Vegas, dove si danno alla pazza gioia tra le suite e i casinò. Questa parte del film mi ha ricordato tanto “Spring Breakers”, il cult movie di Harmony Korine, con tanta musica a palla, divertimento, eccesso e riprese movimentate. Vanja, una sera, propone ad Anora perfino di sposarla, così da non tornare in Russia dai suoi “odiati” genitori. La ragazza accetta e i due si sposano nei più classici matrimoni-lampo di Las Vegas. 

Per Ani è come vivere in una favola, tutto per lei è un sogno ad occhi aperti. La vita non potrebbe andare meglio. 

Tuttavia, i gorilla del padre, capeggiati da Toros (un sacerdote della chiesa armena in città, nonché padrino del ragazzo) più l’armeno Ganik e il russo Igor, il quale all’inizio appare marginalmente ma che poi assumerà sempre più importanza, scoprono che il ragazzo si è sposato per davvero e intendono prelevarlo dalla villa per farlo divorziare al più presto, prima dell’arrivo dei genitori di lui. 

Il ragazzo, però, riesce in qualche modo a fuggire, lasciando Anora sola con i tre uomini, abbandonandola, forse per sempre. 

Da qui si capisce che, da colto cinefilo, “Le notti di Cabiria” ha avuto un forte impatto sulla formazione del regista, come confessato nelle interviste successive all’uscita di “Anora”. 

La parte più divertente del film ha così inizio: dopo aver distrutto mezza villa, lottando tra loro, il singolare quartetto girerà tutta la notte a New York in cerca del ragazzo, tra mille avventure grottesche e situazione disperate. Questa seconda parte del film non può che ricordare i film alla “Tutto in una notte”, però con personaggi usciti dalle migliori commedie nere dei Coen. Questa parte del film è, non esagero, davvero esilarante, come mai era accaduto nei film di Baker (si rideva, sì, ma a denti strettissimi). Qui, al contrario, si ride di gusto! Riaffiorano dunque pretesti comici già utilizzati in precedenti film dello stesso, come la scena del vomito nell’automobile, vedi “Tangerine”, ma sviluppati meglio. 

Scopriamo, piano piano, che Igor e Anora sono più simili di quello che sembrano. Sono due anime pure, semplici, alienati da una società sfruttatrice - Ani sfruttata per il suo corpo e la sua bellezza, Igor sfruttato per la sua forza fisica. Igor, per farvi capire, guida ancora la vecchia macchina di sua nonna, nonostante il lavoro dovrebbe essere quantomeno redditizio! 

Nel finale, i due si avvicineranno sempre di più, sia spiritualmente sia fisicamente, anche grazie al piccolo plot twist finale. La scena finale, di una struggente bellezza, corona il tutto e assume un significato - che va ad interpretazione da spettatore a spettatore - senz’altro più che poetico. 

Come dicevo all’inizio, il nostro Baker riesce a mantenere il suo spirito indipendente, nonostante il successo. Ebbene, ad inizio film, nelle scene del night club, gli uomini che interagiscono con la protagonista non sono comparse, bensì veri clienti ripresi “illegalmente” (così come, illegalmente parlando, aveva girato il finale de “Un sogno chiamato Florida”, nel parco giochi). Questi uomini sono stati ripresi tramite teleobiettivo, mentre l’attrice Mikey Madison era guidata dal regista tramite un auricolare nascosto. Così come la scena post-matrimonio per le strade di Las Vegas, secondo me; anche la scelta della villa è stata improvvisata, poiché il regista l’ha trovata per caso su Google maps! Il film si colloca coerentemente nella filmografia del regista, con la tematica del “sex worker” alienato quasi sempre messa in primo piano: in “Tangerine” le due protagoniste sono due transessuali; in “Un sogno chiamato Florida” la ragazza madre usava il suo corpo come espediente per sopravvivere; infine, in “Red Rocket”, il protagonista, un ex pornoattore, tornava a casa sua, in Texas, per tornare alla normalità. C’è un filo rosso che collega tutti questi film e Baker, su questo aspetto, ha compiuto un ottimo percorso. 

Per quanto riguarda la tecnica registica, i movimenti di macchina sono perfetti e i piano sequenza con i protagonisti ripresi di spalle (ricorrenti nel suo cinema) tornano alla ribalta, raggiungendo il loro apice all’interno del night club, nella parte centrale. Le inquadrature geometricamente perfette sul lungomare sono le uniche tipicamente bakieriane presenti in questo film (Baker è un maestro nello sfruttare la luce naturale e i luoghi più particolari realmente presenti nelle varie città). 

Anche in questo caso si ha un rapporto strano osservando la storia narrata: lo spettatore desidererà vivere in quel mondo lì, non può non empatizzare con i personaggi principali, anche se il mondo che viene svelato sia profondamente marcio e alienante! Mi è sempre capitato con ogni film di questo regista e anche qui ho provato la medesima sensazione. 

Ed ecco la mia interpretazione finale riguardo a questo film…la morale della favola è la seguente: solo l’unione degli ultimi, degli emarginati, può sconfiggere le brutture di questo mondo, governato da dei pochi ricchi superficiali e/o insensibili. Il messaggio non è nuovo, ma Baker lo esprime con la grazia innata del cinema indipendente. Un po’ come se Ken Loach incontrasse prima Harmony Korine e poi i fratelli Coen. 

E io non posso che dire grazie.



giovedì 21 novembre 2024

LONGLEGS - LA CONSACRAZIONE DI OZ PERKINS

 La famiglia Perkins nel campo artistico ci ha sempre saputo fare, prima con nonno Osgoord, poi con suo figlio Anthony (il grande Norman Bates di Psycho) e ora, a sua volta,  con Osgoord nipote, accorciato in “Oz” per amici e cinefili. Anche suo fratello Elvis, musicista, lavora ai suoi film, curandone la colonna sonora.

Oz, giunto al suo quarto lungometraggio, realizza un angoscioso horror mascherato, dalle premesse, da thriller poliziesco sovrannaturale, una sorta di miscuglio tra True Detective, Seven e Il silenzio degli innocenti … ma solo nelle premesse, sia chiaro! La storia parla della detective Lee Harker, semi-sensitiva alle prime armi, che la vede impegnata in un caso misterioso dell’FBI, sulle tracce di un misterioso serial killer, che si firma con il nome “Longlegs”, e che terrorizza intere famiglie, le quali si sterminano apparentemente senza motivo, senza che lui faccia nulla, visto che non è presente sul posto nel tragico momento. Come fa questo assassino a uccidere “a distanza”? Già dopo i primi minuti, l’atmosfera si fa a poco a poco angosciante e si percepisce benissimo come l’horror sia il vero genere dominante di questa pellicola. 

Basterebbe la prima scena per far capire la grandezza raggiunta da Perkins nel corso degli anni, anche solo per comprendere quanto sia abile nel suo mestiere. Il film si apre con un POV, un point of view, all’interno di una vettura. La soggettiva non è del guidatore, bensì di una seconda persona seduta sui sedili posteriori. Un sottile velo nero ci oscura leggermente la visuale. Soltanto ad un certo punto del film scopriremo, a conti fatti, che quel POV non era di un essere umano … ma di una bambola! 

Un piccolo colpo di genio (ce ne sono molti di questo tipo all’interno del film) che dimostra come Oz Perkins deve essere considerato parte del club della recente new wave dell’horror insieme ai più noti Robert Eggers, Ari Aster e Jordan Peele. Altro colpo di genio è il passare da un formato 1,33:1, con angoli smussati, per poi allungarsi piano piano ad uno più classico come il 2,39:1. Il primo formato è perfetto per rendere l’atmosfera retrò, di cui il film è pregno (non a caso Longlegs ascolta rigorosamente musica anni ‘70, con i T.Rex che svettano a sorpresa su tutto il resto!) 

Longlegs - il film - ci parla di come il male viva costantemente vicino a noi, andando a ricordare di come il Maestro Tobe Hooper ci diceva di non aprire quella porta, ovvero quel varco sottilissimo tra pazzia omicida e razionalità umana. 

Un’opera matura, concisa, che arriva dritta al punto, che riesce ad intrattenere e ad inquietare allo stesso tempo. Il titolo del film, difficile da rendere in italiano, fa probabilmente rifermento a Papà Gambalunga, il protagonista della celebre storia dove un ricco filantropo offriva la possibilità ad una giovane orfana di studiare in una università, per poi finire con lo sposarla; oppure, potrebbe riferirsi al fatto che Longlegs, un adulto, debba accovacciarsi per parlare faccia a faccia con i bambini, dicendo loro:  <<sembra che ho indossato le mie gambe lunghe, oggi>>. 

Gli attori del film, poi, aggiungono quel tocco in più, capeggiati in primis da un’ottima Maika Monroe, che interpreta la nostra stramba e acerba protagonista, guidata in primis dal suo sesto senso e dal suo misterioso legame con l’assassino; Nicolas Cage, al suo primo e - a quanto dichiarato - ultimo ruolo da serial killer, è sì notevolmente trasformato dal trucco, come avvolto da strati di cera, come se indossasse una maschera infernale, ma la sua breve performance, coerentemente sopra le righe (degna del personaggio Nick Cage creato in questi ultimi anni), è già divenuta cult, un po’ come la breve performance di Sir Anthony Hopkins nei panni di Hannibal Lecter. Il personaggio di Longlegs è molto più complesso di quello che sembra - Longlegs non è altro che un ingranaggio del sistema satanico-infernale, e parla spesso dell’<<amico del-piano-di-sotto>>. A chi si starà riferendo? A voi scoprirlo. 

Longlegs vive della pazzia interpretativa del suo attore, spesso lasciato a briglia sciolta e capace di recitare scene improvvisate, come quelle in macchina. Il personaggio e l’attore si fondono in un tutt’uno, in questo caso. Un plauso anche a Alicia Witt, che interpreta l’inquietante madre della protagonista. Blaire Underwood, che interpreta il capo della nostra, è capace di dare al suo personaggio un pizzico di ironia, in un film circondato da atmosfere cupe. 

Soltanto il finale del film può essere considerato “telefonato”, ma gli eventi mostrati erano l’unico modo di sbrogliare ogni aspetto della sceneggiatura e di chiudere ogni sotto trama. In poche parole, Perkins non aveva scelta. 

È un po’ come mettere l’ultimo tassello di un puzzle al posto giusto: sai cosa accadrà, ma sei comunque soddisfatto per il lavoro finito. 

Ora non resta che aspettare il 2025, quando uscirà il quinto lungometraggio di Oz Perkins, “La Scimmia”, tratto dall’omonimo racconto del maestro del brivido Stephen King. 



mercoledì 30 ottobre 2024

5 FILM HORROR A EPISODI PER LA NOTTE DI HALLOWEEN

 

In questo particolare periodo storico, dove vanno così tanto di moda le serie tv, oppure i film a puntate (o meglio, si è stati abituati a concepire così il prodotto audiovisivo con l’avvento della tv), ecco che per la notte di Halloween 2024, che è ormai alle porte, ho deciso di consigliarvi cinque film dell’orrore a episodi, così da vedere un unico film, ma diviso in più storie. Partiamo:

1)    “Il giardino delle torture” di Freddie Francis (1967): horror britannico suddiviso in quattro episodi, è un film ambientato in un luna park, dove alcuni turisti faranno la conoscenza del Dottor Diablo, che farà immergere ogni personaggio in una sorta di trance, per fargli vivere in prima persona un'inquietante storia una diversa dall’altra. Un cult horror che oggi forse non spaventerà più come negli anni ‘60, ma che ha ancora qualche freccia nel suo arco. L’ultimo episodio, per esempio, è un grande omaggio a Poe. Il finale che amalgama la pellicola, all’interno del parco giochi, non può che essere a sorpresa, come solo un tempo si sapeva fare.

2)    “Creepshow” di George A. Romero (1982): uno dei migliori film horror degli anni ’80, questo Creepshow è un vero gioiello, girato dal Maestro Romero e scritto da Stephen King (che qui vi recita anche). Un film fotografato magistralmente, in omaggio all’altro Maestro del brivido Mario Bava, con dei viola, dei blu e dei rossi … dell’altro mondo! Il film, dopo un prologo che vede recitare anche il piccolo Joe Hill, il figlio di King, si suddivide in cinque episodi, che sono:

‘La festa del papà’: un odioso uomo, ucciso anni prima, tornerà in vita il giorno della festa del papà, per cercare vendetta.

‘La morte solitaria di Jordy Verrill’: un contadino (un indimenticabile strampalato S.King) entra in contatto con un meteorite caduto sul suo giardino.
‘Alta marea’: un marito tradito (interpretato da un inedito Leslie Nielsen) si vendica della moglie e dell'amante seppellendoli sulla riva in attesa dell'alta marea.
‘La cassa’: nel sottoscala di una università si trova una cassa con dentro una misteriosa creatura.
‘Strisciano su di te’: un avido uomo d'affari ha una paura tremenda degli insetti e questo lo porta a vivere rinchiuso dentro il suo asettico appartamento, finché un blackout complicherà le cose. Senza dubbio l’episodio più disgustoso di tutta la pellicola, credetemi!

3)    “Incubi” di Richard Donner, Tom Holland e Robert Zemeckis (1992): tre registi di altissimo livello per tre mediometraggi molto coinvolgenti, in un film uscito direttamente per la televisione, e che in pochi conoscono. ‘Duello fantasma’ è un western che narra la storia di un pistolero che, grazie ad una pozione, scoprirà ciò che la sua mente ha rimosso.
‘Corsa verso la morte’ racconta di una sfida tra un giovane del volante (un giovane Brad Pitt) e un campione del passato, impegnati in una corsa mortale ad alta velocità.
‘L'ultimo coraggio’ è la storia di un padre che, durante la Grande Guerra, porta il figlio davanti alla corte marziale accusandolo di codardia, da menzionare i due attori coinvolti, ovvero il grande Kirk Douglas e suo figlio Eric. Piccola curiosità, Kirk Douglas aveva già recitato nelle trincee della Prima guerra mondiale, nel capolavoro di Kubrick del 1957, “Orizzonti di gloria”.

4)    “Three … extremes” di Fruit Chan, Park Chan-Wook e Takashi Miike (2004): anche in questo caso abbiamo tre cineasti d’eccezione, che realizzano un horror a episodi disturbante come pochi altri, capace di traumatizzare lo spettatore più volte durante la singola visione. Nel primo episodio, ‘Ravioli’, una signora borghese si reca presso una singolare fattucchiera per mangiare i suoi ravioli, elisir di lunga vita, grazie al particolarissimo condimento. Questo episodio è stato poi rilasciato anche come lungometraggio, ed è davvero un’ottima disgustosa storia scabrosa.
Nel secondo episodio, ‘Cut’, un regista e sua moglie vengono rapiti da una comparsa psicopatica e costretti ad un gioco diabolico.
Nel terzo e ultimo episodio, ‘Box’, si parla di fantasmi e visioni, ambientando il tutto in un circo.

5)    “Southbound – Autostrada per l’inferno” di David Bruckner, Patrick Horvarth e Roxanne Benjamin (2016): un horror indipendente che, a differenza degli altri citati, collega tra loro le varie storie, andando a creare un vero e proprio incubo ad occhi aperti, dove un’azione di un personaggio, magari, andrà a stravolgere l’esistenza del protagonista dell’episodio successivo. L’ambientazione sulla celebre strada Route 66, costeggiata dal deserto e perfetta per lunghi viaggi notturni e solitari, infernali, non può che fare da splendida cornice a un film molto interessante e originale.

lunedì 28 ottobre 2024

PARTHENOPE DI PAOLO SORRENTINO: TRA MITO, RIMANDI CLASSICI E PERFEZIONE TECNICA.

Parthenope è un inno all’estate, alla giovinezza in generale e ai corpi in particolare. 

La cosa che mi ha colpito fin dalla primissima scena di questo film, e sensazione che non mi ha abbandonato mai per 130 minuti, è il fatto che Sorrentino abbia realizzato delle inquadrature volutamente perfette, maniacali, degne di essere esposte al Louvre o agli Uffizi. In questi tre anni, che lo separano dal suo precedente lavoro, Sorrentino avrà sicuramente studiato e ristudiato ogni singola scena. L’avrà disegnata, sognata, immaginata più volte. Ne sarà uscito pazzo. La perfezione tecnica ne è il risultato. Anche quando inquadra un semplice muro (non scherzo mica) riesce a essere geometricamente e visivamente perfetto. 

Il film, comunque, narra la giovinezza di Parthenope, figlia del mare e di Napoli, dal 1968 fino ai primi anni ‘80. Proveniente da una famiglia della borghesia napoletana, la ragazza si muove e si atteggia da dea greca, tra pose ad effetto, da spot televisivo, e frasi taglienti sempre pronte (cosa che ogni personaggio del film le rinfaccia, tanto da diventare comico, <<hai sempre la risposta pronta>>). 

Parthenope, infatti, sembra l’incarnazione di una dea greca in terra. E arriverà perfino a sfidare subdolamente Dio, o chi per esso lo rappresenta sulla terra! 

Non ci vuole molto a capire che: Parthenope = Napoli. 

In realtà, Partenope, nella mitologia greca, era una bellissima sirena dagli occhi tristi che con il suo canto riusciva ad ammaliare chiunque, perfino sé stessa. La sua fine, secondo il poeta Apollonio Rodio, è da ricondurre ad Ulisse, che riuscì a ignorare il canto della sirena e delle sue simili. La sirena allora si suicidò e il corpo esamine arrivò fino alle foci del fiume Sebeto, che bagnava l’antica Neapolis. Successivamente, col passare del tempo, Partenope venne scelta come dea protettrice dai cittadini. Oggi, di Partenope, rimane una scultura incastonata nella fontana della caratteristica Piazza Sannazaro, in città.

Nella pellicola, invece, Parthenope, partorita proprio nelle acque partenopee, è una bellissima donna, inevitabilmente ammaliatrice, come solo e soltanto le meridionali possono essere, ed è interpretata dalla sconosciuta Celeste Dalla Porta, eccellente nelle scene di silenzio…e anche da Stefania Sandrelli, nella sua controparte anziana. 

La giovane è particolarmente legata a suo fratello, che ha il tratto distintivo di soffiare sulle persone (letteralmente) come il Dio del vento Eolo. 

Il loro rapporto, dai tratti incestuosi, è un altro rimando al mondo greco antico. Le giornate dei due trascorrono nella loro grande villa, corredata da busti greco-romani, tra la noia borghese, le letture e l’armonia delle onde blu del mare, fotografato in maniera eccelsa da Daria D'Antonio.

I due, più il fidanzato di lei, allora, decidono di partire alla volta della vicina Capri, per dare una svolta all’estate. Qui la nostra eroina incontrerà perfino John Cheever, scrittore statunitense realmente esistito, Maestro indiscusso del racconto breve, interpretato da un Gary Oldman forse mai così bravo. Sempre a Capri, la scena della discoteca è molto d’effetto. La colonna sonora del film, ne approfitto, è memorabile. 

A Capri ci sarà, però, un evento - una svolta - che cambierà drasticamente le sorti dei personaggi del film, degna di una tragedia greca. 

Da quel momento in poi, dal ritorno a Napoli in avanti, intendo dire, il film diventa un pretesto per celebrare lo sfogo dell’ego sorrentiniano, che raggiunge vette mai toccate prima. 

Se fino a quel momento il film era sì una favola (<<Fidatevi, (vi) nascerà una femmina>>, afferma fin dalla sua prima battuta il Commendatore), ma tutto sommato abbastanza sobria (unici elementi grotteschi presenti: l’elicottero e il baldacchino di Versailles), dalla seconda parte in poi le scelte visive di Paolo Sorrentino assumono un tono barocco e un ritorno alla follia grottesca de “La grande bellezza” e “Youth”, ma ancora più in grande; elenco, vado a memoria: il colera, l'attrice mascherata, la fusione, tutta la parte del miracolo di S.Gennaro, il figlio. E mi fermo qui. 

Alcune scene sono tuttavia riuscite, come quella che vede la musa del regista, Luisa Ranieri, impegnata in un monologo di territoriale autocritica. 

Molto bello anche il rapporto tra Parthenope e il suo professore universitario, interpretato da uno stanco, ma convincente, Silvio Orlando. 

Nella parte finale si accumulano le scene grottesche, oniriche, esagerate.

Tutto quello che non amo e non sopporto di Sorrentino viene tristemente a galla. 

Inoltre, chi non ama i film dove i personaggi parlano per frasi fatte, forse dovrebbe tenersi alla larga da tutto questo. 

Il finale prolungato e tirato per le lunghe non convince affatto; interessanti, al contrario, i titoli di coda. Fosse stato sfoltito di una decina di minuti, il ritmo del film ne avrebbe giovato. 

Azzardo anche che, fosse stato solo un mediometraggio (dall’inizio fino alla parte a Capri inclusa, ovviamente), il film sarebbe stato indimenticabile, non esagero.

Sorrentino, dunque, tirando le somme, non riesce a contenersi come aveva fatto nel precedente e stupendo “È stata la mano di Dio”, dove il grottesco c’era, ma era contestualizzato nel folklore napoletano (vedi il Munaciello). Un peccato, però, non aver visto quel film sul grande schermo, rubato dall’avidità di Netflix; una fortuna, al contrario, aver goduto di questo film sul grande schermo.
 

Qui, in compenso, c’è una perfezione tecnica da far invidia a un maestro dell’inquadratura del calibro di Wes Anderson. 

mercoledì 21 febbraio 2024

POVERE CREATURE! - ANATOMIA DI UN FILM

Il regista greco Yorgos Lanthimos, classe ’73, a distanza di cinque anni da “La favorita”, film britannico in costume, torna a dirigere un film, basandosi su un romanzo sperimentale, postmoderno, scritto da Alasdair Gray, celebre scrittore fantasy natìo di Glasgow. Il romanzo, di oltre 400 pagine e corredato da disegni dello stesso scrittore, è stato pubblicato nel 1992, ma uscì in Italia soltanto due anni dopo, dapprima con il titolo “Poveracci!”. Una seconda ristampa era stata ribattezzata “Vita e misteri della prima donna medico d’Inghilterra”. Soltanto oggi, prende il nome del film: “Povere creature!”. Tornando al film, però, esso si apre con un breve incipit a colori, molto elettrici, quasi fossimo dinanzi un dipinto di El Greco (1541-1614). Lo spettatore assiste subito al suicidio di una giovane donna, Victoria Blessington, che si getta nel Tamigi, il noto fiume di Londra, dal Tower bridge. Poi, il regista sceglie di passare al bianco e nero per tutta la prima parte del film … un bianco e nero che si rifà ai film del cinema espressionista tedesco (anni ’20). Lo spettatore fa così la conoscenza di Godwin Baxter, un geniale scienziato sfigurato, interpretato da un sempreverde Willem Dafoe, la cui faccia è trasformata (e deformata a causa degli esperimenti inflitti da suo padre) dal trucco. Lo scienziato, che non gode di molta stima all’interno della comunità, è riuscito tuttavia nell’impossibile: ha riportato in vita Victoria, sostituendole il cervello con quello del bambino che portava in grembo! Ribattezzata in Bella, ora ragazza con cervello da infante, è costretta a crescere solo e soltanto all’interno della casa di Godwin Baxter, che lei chiamerà per tutto il corso del film “God” (cioè Dio, a sottolineare il fatto che egli sia il suo creatore). Una casa popolata da animali incrociati con altri animali, dunque anch’essi vittime di esperimenti. La regia di Lanthimos è tra il voyeuristico e l’introspettivo. Si alternano inquadrature che sembrano replicare lo spioncino di una porta (il fish-eye, nel gergo cinematografico), passando per zoom che arrivano ad inquadrare i volti degli attori, fino ad arrivare al marchio di fabbrica del cineasta, il grandangolo. Il film, secondo me, può essere comodamente suddiviso in tre atti:

1.  1) Bella Baxter muove i primi passi:

notevole il lavoro svolto da Emma Stone, costretta ad interpretare una donna con un cervello da bambina, quindi dispettosa, scoordinata e incapacitata a formulare frasi di senso compiuto, almeno nei primi tempi. L’inizio della pellicola è ripetitivo e indugia molto sul comportamento di Bella, che si diverte a suonare il piano, rompere i piatti uno dopo l’altro e giocare con gli animali, oltre a “tagliare” i cadaveri a disposizione di God, lo scienziato. Uno dei pochi estimatori di Godwin, il giovane studente di bassa estrazione sociale Max McCandles, viene assunto dallo stesso scienziato per annotare tutti i progressi della donna-bambina. Inutile dire che, ben presto, tra i due nascerà un rapporto speciale. Godwin, capendo ciò, propone al ragazzo di sposare Bella.

2.   2) Bella scopre la sua sessualità:

Ora che è passato del tempo, Bella è in grado di parlare, si muove meglio e ha avuto anche qualche concessione, come una gita fuoriporta con i suoi due uomini. Ma a Bella tutto questo non basta, perché è una creatura che sta crescendo, si sta formando e che, sopra ogni cosa, ha voglia di scoprire. Quasi per caso, una mattina, scopre il piacere autoerotico. Da quel momento in poi, sarà tutto un crescendo. Per redigere il contratto di matrimonio, che pone dei vincoli a Bella, viene chiamato Duncan Wedderburn, interpretato da un sorprendente Mark Ruffalo. L’avvocato, non altro che un dongiovanni, conosce di nascosto Bella e la invita a scappare con lui, a conoscere il mondo. Proprio con l’avvocato, Bella avrà i primi rapporti sessuali, continui e frenetici, chiamati ingenuamente <<furiosi sobbalzi>>. God, capendo che Bella sta sempre diventando più indipendente, la lascia partire per un viaggio che la terrà fuori casa per parecchio tempo.

Nonostante la vicenda narrata sia ambientata in un determinato periodo storico – l’Inghilterra vittoriana – il mondo ricostruito da Lanthimos è immaginifico, surreale e grottesco, fuori dal tempo, in una parola sola: steampunk. Esso trascende il tempo stesso, mostrando sì una società tardo ottocentesca, ma imbastita di elementi futuristici come macchine a vapore, tram che corrono per l’aria, colori elettrici, marcati, un’atmosfera fiabesca. Dal punto di vista visivo, la scenografia può ricordare quella di un Jean-Pierre Jeunet o di un Terry Gilliam. Visivamente parlando, i paesaggi del film sono, dal primo all’ultimo, mozzafiato e, avendoli visti sul grande schermo, mi hanno lasciato senza parole!

Una volta arrivati a Lisbona, Bella, dopo aver fatto ancora i <<furiosi sobbalzi>> con Duncan, esplora da sola la città, rimanendone incantata e un po’ spaventata. Proprio nel capitolo dedicato a Lisbona, il film inizia a rivolgere una più netta critica alla società vittoriana e benpensante dell’epoca, con una figura dirompente e “pura”, innocente, come quella di Bella ad apportare una piccola “rivoluzione” a quel mondo lì. Degna di nota la sequenza a tavola, che vede i due amanti e una coppia loro coetanea scherzare su temi (sessuali) a doppio senso, prima che Bella irrompa nelle battute con una uscita molto volgare, che scandalizza i loro amici. Altra scena da menzionare è quella del ballo, dove Bella – fuori da ogni schema imposto dalla società – ne inventa uno nuovo, frenetico, spasmodico, una <<modern dance>>, come cantavano i Pere Ubu negli anni ’70. Per rivitalizzare un rapporto che sta ora sfociando nella noia e nell’odio, Duncan droga Bella e la porta in una nave da crociera che “sputa” del vapore giallo. Ma invano. Sulla nave, però, Bella conosce una coppia di viaggiatori: una anziana signora di nome Martha von Kurtzroc e un ragazzo di colore di nome Harry Hastley, le cui biografie, purtroppo, non vengono nemmeno menzionate, lasciando il desiderio allo spettatore di leggere il libro di Gray, per scoprire più dettagli sui personaggi. Nonostante ciò, Bella, grazie ai suoi due nuovi amici, conosce la filosofia (Harry è un nichilista, non si riconosce in nessuna ideologia). Per far aprire gli occhi a Bella riguardo gli orrori del mondo, Harry la accompagna ad Alessandria d’Egitto.

3.   3) Bella scopre gli orrori del mondo:

eppure, nonostante il mondo apparisse bello e innocente agli occhi della giovane creatura, c’erano stati degli avvisagli nefasti come la coppia in litigio a Lisbona e, sulla nave, il più cruento sgozzamento di un gabbiano da parte di un marinaio. Ma solo ad Alessandria, Bella verrà a patti con la realtà, osservando con i propri occhi le disparità sociali, rappresentate in modo <<dantesco>>, da girone infernale, in un caldo torrido. Bella, disperata, scoppia in un pianto isterico. Così, decide di prendere i numerosi soldi vinti da Duncan al casinò e donarli ingenuamente a due marinai che, quasi certamente, terranno per loro stessi. Senza più un soldo, i due amanti sono obbligati a sbarcare al prossimo porto e, ritrovatosi a Parigi, costretti a vivere come vagabondi. Qui arriva la parte più divertente del film, nonostante la drammaticità del momento, con un Mark Ruffalo che da ex supereroe del cinema (è stato l’attore che ha interpretato Hulk) appare adesso ridicolizzato, in preda a crisi isteriche perché povero e senza un soldo in tasca. In una Parigi completamente innevata, Bella inizia a lavorare in un bordello, a prostituirsi, per guadagnare soldi. Qui sta la chiave di lettura più importante presente all’interno della pellicola: Bella si emancipa da una società di disparità e fortemente patriarcale mettendo a disposizione il suo corpo, unendo il piacere personale al guadagno, voltando faccia a una società ipocrita, benpensante, che collega la mercificazione del corpo alla peccaminosità, all’indecenza. Un mio amico appassionato di filosofia, Marco, ha visto in Marcuse la chiave del film: ovvero il superamento dei dolori provocati dalla società attraverso la totale liberazione dell’eros. Nel bordello, in ogni caso, avviene un altro fatto importante, ovvero Bella fa la conoscenza di Toinette, una sua giovane collega, che la introduce al socialismo. Bella ora capisce che soltanto attraverso una rivoluzione, alla lotta di classe, potrà liberarsi dalla società in cui è costretta a vivere. Nonostante il libro sia più politico, come tutti i lavori del suo scrittore, anche nel film non mancano accenni – magari più velati – alla politica. Purtroppo, God, sentendo la mancanza di Bella, inizia a stare male. Presto capirà che non ha più molto tempo da vivere. Bella, dunque, non può che tornare nella città da dove era scappata: Londra. Lì, la ragazza, presto conoscerà il concetto di morte. Durante il giorno delle nozze, al quale assiste lo stesso God, a complicare le cose, comparirà il vecchio marito di Victoria/Bella, tale Alfie Blessington, un generale dell’esercito, che reclama il diritto di averla con sé, di possederla; e lei, a sorpresa, deciderà di seguirlo nel suo castello, lasciando sbalordito il pubblico tanto quanto Max e Godwin che rimangono impotenti, vicino l’altare. Spaesato, lo spettatore non capirà il perché di quella scelta. Ma poi, in un finale tanto crudele quanto geniale, tutto assumerà un senso e lo spettatore potrà lasciare la sala appagato, con un sorriso tra le labbra.

ASPETTI TECNICI:

dal punto di vista tecnico, tutti nella troupe hanno svolto un egregio lavoro. Lo stile di regia di Lanthimos, come ribadito all’inizio, è perfetto per ciò che si sta vedendo. Il montaggio, ad opera di Yorgos Mavropsaridis, crea il giusto ritmo. Le scenografie sono visivamente memorabili, i cieli appaiono come dipinti, pennellati; il mare, sembra uscito da un film di Fellini. I costumi sono iconici, perfettamente studiati e penso proprio che verranno menzionati, nel prossimo futuro, nelle scuole di moda. Ma a colpire maggiormente forse è la colonna sonora, composta interamente da Jerskin Fendrix, che ha suonato a parte ogni strumento, dal pianoforte ai violini. La colonna sonora appare volutamente scoordinata e strimpellante, al fine di ripercorrere i passi di crescita della protagonista, diventando un tutt’uno con essa, fino a crescere, a maturare, e diventare un po’ più armonica.

L’EVOLUZIONE DI LANTHIMOS:

Di notevole importanza è anche l’evoluzione compiuta dal cineasta greco che, film dopo film, ha cambiato stile, lo ha plasmato alle sue storie e al suo modo di vedere il mondo. Conosciuto dapprima in patria come un regista “freddo”, glaciale, con uno stile simile a quello di un Michael Haneke o di un Ulrich Seidl, oggi – grazie a questo suo ultimo film – possiamo notare come sia diventato un regista più “caldo” … è questo, infatti, il suo film più sentito, dove si nota tantissimo la sua empatia per due o tre personaggi! L’evoluzione di Lanthimos, iniziata con “La favorita”, superando l’ingombrante appellativo di “nuovo Kubrick”, può oggi dirsi compiuta. Probabilmente, però, come per tutti i grandi artisti anche questo periodo sarà per lui di transizione, fino al prossimo step della sua già rinomata carriera.

INFLUENZE, CITAZIONI E OMAGGI:

nonostante l’originalità della storia, Lanthimos infarcisce la pellicola di omaggi e citazione ad altri film, probabilmente a lui cari. Da un certo punto di vista, il regista gioca un po’ con il metacinema, incarnando il ruolo di Godwin, incrociando vari film (come il personaggio incrocia i suoi animali), per creare un nuovo ibrido. Innanzi tutto, la prima parte del film ricorda il suo primo film di successo “Kynodontas” (la storia di due ragazze cresciute forzatamente nella loro casa, senza poter osservare il mondo). La storia ha tratti in comune con “Pinocchio” e “Frankenstein”, creature create da altri esseri umani e desiderose di esplorare il mondo che li circonda. Poi, possiamo notare le influenze del cinema espressionista tedesco, come scritto sopra, ma non solo nella fotografia in bianco e nero, ma proprio per scelte di regia; possono essere fatti dei parallelismi con “Metropolis” di Fritz Lang (1927) per quanto riguarda lo skyline di Lisbona o per la scena dell’operazione di Bella. Le scenografie, gli interni dei determinati edifici (sia esso un hotel, la cabina della nave o il bordello) sono sfarzosi, barocchi e influenzati dall’Art déco (1940s). Le atmosfere steampunk sono ovvie e, come scritto in precedenza, ci sono echi di Gilliam e Jeunet. Curioso e divertente il parallelismo notato da alcuni appassionati cinefili su internet con il film cult di serie B “Frankenhooker”, la storia rivisitata – anche in quel caso – di Frankenstein, ma al femminile. Dopo la morte della sua ragazza, a causa di una falciatrice assassina che l’ha ridotta a brandelli, un giovane studente scienziato cerca di riportarla in vita. Non avendo parti del corpo a disposizione è costretto a uccidere delle prostitute per riportare in vita la sua ragazza. Una volta in vita il mostro avrà una voglia scatenata di … sesso! Nonostante sia una commedia horror, le espressioni facciali tra la protagonista e Bella sono simili (di certo la Stone è un’attrice di rilievo), la scena della creazione è simile e, il sesso come liberazione del proprio io, è parte comune in entrambi i film.

SCELTA DEL TITOLO:

emblematica, ai fini del messaggio dell’opera, la scelta del titolo. Chi sono queste povere creature? Forse gli uomini che ruotano intorno a Bella (il protettivo God, il promesso sposo Max, l’insaziabile Duncan, i disperati uomini frequentatori del bordello, il crudele marito Alfie), almeno questa è la spiegazione che viene fornita al lettore del libro; o forse le Povere Creature non sono altro che gli esseri umani, condannati alle loro scelte, ai loro errori, a una vita apparentemente insensata. Forse, invece, le Povere Creature sono le donne, abusate da una società maschilista, che le vuole rinchiuse in un determinato luogo. La risposta non ci è data saperla con certezza, ma lo spettatore potrà farsene una propria dopo aver visto il film.

UNA BATTAGLIA DOPO L'ALTRA - PICCOLA ANALISI DI UN GRANDE CAPOLAVORO

0.1 Il film parte subito in quarta, spiazza lo spettatore, mostrando da una parte le azioni del gruppo rivoluzionario “French 75” di chiara ...