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domenica 29 dicembre 2024

LONESOME DOVE: EPOPEA WESTERN

È il 1985, negli Stati Uniti d'America siamo in piena epoca reganiana, ma al medesimo tempo escono due romanzi in controtendenza, due western: il più noto, “Meridiano di sangue”, scritto da Cormac McCarthy, e “Lonesome Dove”, di Larry McMurtry. Al secondo, però, spettano gli elogi maggiori, perché la critica lo premia l'anno seguente con il prestigioso Premio Pulitzer per la narrativa. Ma cosa ha spinto la giuria del Pulitzer a premiare un romanzo western proprio nel 1986, quando le storie predilette erano le scalate al successo a Wall Street? Lonesome Dove è non solo un’epopea western che raggiunge le quasi 1000 pagine, che ha al suo interno centinaia (non scherzo) di personaggi, dunque parliamo anche di un romanzo corale; è stato definito “Il signore degli anelli in salsa western”. In un certo senso può ricordarlo. Ci sono personaggi memorabili, l’epica, una missione da compiere, dei cattivi ben delineati. Non sembra di assistere ad un’opera di Sergio Leone, quanto ad una di John Ford. Gli Indiani sono i cattivi della storia, fanno paura a tutti. Popolano gli incubi degli americani, discendenti dei coloni europei. Gli indiani, i nativi, sono stati mezzi sconfitti, ma alcune terre le bazzicano ancora loro. I messicani, invece, vanno impiccati, non si va molto d’accordo con loro. È l’America divisa, vasta, immensa, rurale. È l’America crudele, individualista, dura, arida. 

Non ci sono ancora le città moderne, o se ci sono appaiono irraggiungibili (come la San Francisco desiderata ardentemente da Lorie). È già presente, tuttavia, il tema del sogno americano: i protagonisti (la compagnia) decide di spostare una vasta mandria da una zona all’altra del Paese (dal Texas al Montana, i due poli opposti degli States) in cerca di ricchezza e di un futuro migliore. 

I maschi del libro sono malinconici, piangono di nascosto, hanno quasi tutti sprecato la loro giovinezza in cerca di fama effimera. I giovani, invece, sognano di diventare dei cowboy, il premio più alto a cui un uomo possa ambire in un mondo selvaggio come quello. 

Le donne in “Lonesome Dove”, invece, sono stereotipate, ci sono tantissime prostitute. Eppure i personaggi più forti sono proprio quelli femminili, e forse anche quelli caratterizzati meglio, con tutti i loro sogni, le loro paure e il loro coraggio di voler cambiare la propria vita. Le donne, anche se succubi di un mondo maschilista (il fucile, nei western, si sa, è simbolo di virilità), sono di gran lunga più intelligenti della loro “controparte” maschile: Lorie>Jack, Elmira>July, Janey> July, ancora lui, Clara>Bob. 

Le scene maggiormente riuscite sono a sorpresa non tanto quelle di azione, ma quelle più introspettive, molto spesso intime e sempre un pizzico malinconiche. 

Esilaranti, invece, i botta e risposta tra il capitano Call e il suo braccio destro Augustus (Gus), i due principali protagonisti dell’epopea, due vecchi popolari Texas Rangers con immensa esperienza e saggezza; il primo più taciturno e pragmatico, l’altro più esuberante e divertente, sempre con la battuta pronta. I dialoghi tra loro due sono scritti benissimo e faranno divertire parecchio il lettore. 

Questo libro mi ha fatto sorridere in più punti, spesso mi ha fatto ridere, a pagina 856 mi ha fatto perfino piangere. E questo vuol dire che un libro del genere regala emozioni forti al lettore, questo è poco ma sicuro. È un libro che si prende il suo tempo, che si chiama “Lonesome Dove”, in onore della cittadina (uno sputo in mezzo al nulla) dove parte la storia ma che poi, da pagina duecento, non vediamo più: un po’ come se “Il signore degli anelli” fosse stato chiamato “La Contea”. E questa cosa mi ha fatto sorridere. Il titolo italiano, invece, “Colomba Solitaria”, è stato accantonato con il corso del tempo, per una valida ragione. 

È un libro, pensate, che poteva durare benissimo altre mille pagine, perché verso il finale c’è una accelerata ben visibile, come se McMurtry non vedesse l’ora di mettere un punto alle vicende della Compagnia - cosa che in realtà non farà mai del tutto perché continuerà a scrivere di questo mondo con un prequel, “Il cammino del morto”, dedicato all’ascesa dei nostri due Texas Rangers; e con un sequel, “Le strade di Laredo”. Larry McMurtry, capace anche di vincere un Oscar alla migliore sceneggiatura non originale per il cult del 2005 “I misteri di Brockeback Mountain”, ha visto molti dei suoi romanzi trasposto felicemente per il grande schermo, come il capolavoro “L’ultimo spettacolo”, il cult “Voglia di tenerezza”, con Jack Nicholson e Shirley McLaine, il classico “Hud il selvaggio” e altri ancora. Anche Lonesome Dove è stato trasposto, ma non per il cinema, bensì per la televisione, in una lunga miniserie, con attori del calibro di Robert Duvall, Tommy Lee Jones, Danny Glover, Steve Buscemi, Anjelica Huston e Diane Laine. 

McMurtry, texano doc, si è spento non molto tempo fa, nel 2021, a 84 anni. Nella sua Archer City, una cittadina che conta soltanto poco più di mille anime e che forse ricorda un po’ l’immaginaria Lonesome Dove, lo scrittore aveva aperto nel 1987 una libreria, Booked Up, che aveva finito col contenere circa 400.000 testi (!), attirando turisti e lettori da tutto il paese. Con la sua dipartita, però, il futuro della preziosa libreria è incerto, ed è stata acquistata da un vecchio concittadino divenuto famoso per la trasmissione del programma televisivo “Casa su misura” ... 







giovedì 19 dicembre 2024

IL FILM SU DONALD TRUMP: THE APPRENTICE!

Questo film biografico del 2024 narra principalmente l’ascesa nel campo immobiliare del giovanissimo Donald J. Trump, anche e soprattutto per merito del celebre e spietato avvocato Roy Cohn, il vero e unico mentore del futuro presidente. 

Ho amato il fatto che questa pellicola giochi molto con i filtri (e sono uno che non ha amato il chiacchierato “Skinamarink” per il suo essere forzatamente patinato): la prima parte, infatti, che descrive gli anni ‘70, è classicamente patinata come i filmati in super8; la seconda, che tratta i “favolosi” anni ‘80, sembra come uscita da una vecchia VHS. 

Ali Abbasi aveva un compito molto difficile nel realizzare il biopic su Donald J. Trump, una figura così dirompente, controversa e dominante da ben mezzo secolo a questa parte. Stiamo parlando dell’Imperatore dell’Occidente, dopotutto. 

Ebbene, il regista iraniano naturalizzato danese - per di più al suo primo film in lingua inglese - se ne esce alla grande, secondo me, con una prima parte per forza di cose più coinvolgente della successiva, perché si vede la genesi del giovane e acerbo Donald; e una seconda parte più introspettiva e descrittiva  dove vengono elencati i successi e le sconfitte di Trump in tutti i campi della sua vita, da quella d’affari a quella amorosa e familiare. 

I due attori principali fanno a gara di bravura tra di loro per tutto il corso della pellicola: Sebastian Stan (il Soldato d’Inverno nei film Marvel), diventa letteralmente D.J.Trump, imitandone perfino le classiche movenze, senza sembrare patetico o forzato; ma è Jeremy Strong a rubare la scena, perché è davvero tosto, donando anima e corpo per caratterizzare al meglio il suo personaggio e farlo svettare su tutti gli altri. Per quanto possa valere, Strong “deserves a nomination”, merita una candidatura ai prossimi Premi Oscar, credetemi. E qui mi tocca aprire una piccola parentesi su chi è stato realmente Roy Cohn, nell’arco di tutta la sua vita, ovvero un celebre avvocato che ha costruito una carriera imbevuta di un fortissimo anticomunismo - è stato infatti il viceprocuratore federale nell’infame processo ai danni dei Rosenberg, oltre ad essere stato il consulente capo del temibile senatore McCarthy - e impuntata anche sulla corruzione e ritorsione, aspetti che vengono ben descritti nella prima parte di questo film, quando facciamo la sua conoscenza, insieme al giovane Trump, che a sua volta viene affascinato e stregato da questo mondo di illegalità ed eccessi. Cohn era un personaggio complesso, molto forte e autoritario ma anche (probabilmente) omosessuale, in un’epoca dove ai gay era vietato persino d’occupare rilevanti cariche pubbliche, per esempio. Un mondo, quello, combattuto ipocritamente anche dallo stesso avvocato, che nascondeva la sua “diversità”. 

A metà anni ‘80, però, dopo essere stato radiato dall’albo per quello che aveva combinato in tutti gli anni di servizio, l’avvocato si ammalò come molti di AIDS, fatto passare dallo stesso per un cancro al fegato fino all’ultimo dei suoi giorni. Molto di tutto questo viene trattato nel corso del film, rendendo questo personaggio più interessante del protagonista, per lunghi tratti. Non so quanto sia romanzato il tutto e quanta importanza abbia effettivamente avuto l’avvocato nella crescita e nella vita stessa del giovane imprenditore, ma nel film i due sono connessi da un legame quasi indissolubile. Più di amicizia, ma di certo non amore. Quasi dipendenza, però. 

Inoltre, viene ripescata anche Maria Bakalova (anche lei proveniente di recente dalla Marvel, dai Guardiani della Galassia vol. 3) per interpretare la storica prima moglie del tycoon, l’ex modella cecoslovacca Ivana. 

La regia di Abbasi è fenomenale e riesce a valorizzare i suoi virtuosismi. Gli zoom e i dettagli ricercati, invece, funzionano sempre nei film biografici. La colonna sonora è piena zeppa di grandi canzoni del periodo trattato, passando dai Suicide (70s) ai New Order (80s). Il finale è buono, ma non eccelle (ci si poteva inventare qualcosa di più, in effetti), sembra quasi la fine di una prima parte, ti aspetti quasi di vedere il “to be continued…” sullo schermo, alla fine dell’ultima inquadratura! 

Questo 2024 è stato davvero un anno dominato dall'ingombrante figura di Donald Trump, tra l'altro da poco eletto personaggio dell'anno dal "Time". Ovviamente, lo è stato a livello politico, con la netta vittoria nelle elezioni più roventi di sempre, ma anche con l'attentato nei suoi confronti e, in dosi molto più piccole, in campo artistico, con l'uscita del film appena descritto, tra l'altro a ridosso delle elezioni americane.   

Ed ecco le tre regole del successo per il duo Roy Cohn-Donald Trump, quasi un mantra in questa trasposizione: 

1) Attacca, attacca, attacca 

2) È vero quello che io dico che è vero 

3) Mai, mai, mai ammettere la sconfitta, dichiara sempre che hai vinto: SEMPRE. 


- <<Sembra la politica estera americana degli ultimi 25 anni…>>

- <<Ma a differenza di quella, questa funziona davvero.>> 



venerdì 6 dicembre 2024

ANORA, DAI BASSIFONDI ALLA PALMA D'ORO

Immaginate di essere un giovane regista, classe 1971, proveniente dal New Jersey e di avere pochissimo in mano, se non altro una smisurata passione per la settima arte, coronata dal collezionismo di vecchie locandine. Immaginate di realizzare diversi film con pochissimi mezzi, uno di questi addirittura con soli tre IPhone 5S. Arrivate però ad avere un buon riscontro della critica perché avete talento e, il vostro nuovo film, avrà addirittura un budget di 6 milioni di dollari (comunque una cifra irrisoria nel settore) … ma in qualche modo riuscite a portarvi a casa la Palma d’Oro al Festival di Cannes! Bene, è quello che è successo a Sean Baker giusto qualche mese fa. Il sogno americano, che tanto viene criticato nelle sue opere, per lui è divenuto finalmente realtà. Baker ce l’ha fatta. Il prossimo passo potrebbe essere l’oscar, chissà. 

Il film, nonostante abbia 6 milioni di budget e sia arrivato facilmente al pubblico mainstream, rispetta lo spirito indipendente del regista e riesce allo stesso tempo ad essere il suo film più maturo. Tuttavia, è il film di Baker che presenta più scene di interni, come quelle del night club e quelle nella sfarzosa villa. 

Il film si suddivide in tre parti ben distinte, nei classici tre atti: nel primo facciamo la conoscenza di Anora - che ama farsi chiamare Ani - e che lavora come spogliarellista nei classici night club americani, in questo caso nel sobborgo russo di Brooklyn, New York. Una notte, però, si presenta un giovanissimo ragazzo, Ivan - che ama farsi chiamare Vanja - in vacanza dalla lontana Russia. Anora viene chiamata per parlare con lui, poiché è di origini russe anche lei e conosce benissimo la lingua. Tra i due nasce una certa complicità e per Anora, Vanja, rappresenta un qualcosa di differente dai soliti clienti di mezza età. Successivamente la ragazza verrà invitata nella villa del giovane russo dove le verrà proposto di diventare la sua ragazza <<esclusiva>>, ma solo per 15.000 $. Vanja è in realtà il ricco figlio di una ricchissima famiglia russa, i Zacharov, dove il padre ha una non meglio specificata importanza come uomo d’affari.

Per Anora è come aver trovato la gallina dalle uova d’oro, in buona sostanza. Piano piano tra i due, a sorpresa, nasce anche un sentimento speciale. Insieme agli amici di lui, i due viaggiano con aerei privati fino a Las Vegas, dove si danno alla pazza gioia tra le suite e i casinò. Questa parte del film mi ha ricordato tanto “Spring Breakers”, il cult movie di Harmony Korine, con tanta musica a palla, divertimento, eccesso e riprese movimentate. Vanja, una sera, propone ad Anora perfino di sposarla, così da non tornare in Russia dai suoi “odiati” genitori. La ragazza accetta e i due si sposano nei più classici matrimoni-lampo di Las Vegas. 

Per Ani è come vivere in una favola, tutto per lei è un sogno ad occhi aperti. La vita non potrebbe andare meglio. 

Tuttavia, i gorilla del padre, capeggiati da Toros (un sacerdote della chiesa armena in città, nonché padrino del ragazzo) più l’armeno Ganik e il russo Igor, il quale all’inizio appare marginalmente ma che poi assumerà sempre più importanza, scoprono che il ragazzo si è sposato per davvero e intendono prelevarlo dalla villa per farlo divorziare al più presto, prima dell’arrivo dei genitori di lui. 

Il ragazzo, però, riesce in qualche modo a fuggire, lasciando Anora sola con i tre uomini, abbandonandola, forse per sempre. 

Da qui si capisce che, da colto cinefilo, “Le notti di Cabiria” ha avuto un forte impatto sulla formazione del regista, come confessato nelle interviste successive all’uscita di “Anora”. 

La parte più divertente del film ha così inizio: dopo aver distrutto mezza villa, lottando tra loro, il singolare quartetto girerà tutta la notte a New York in cerca del ragazzo, tra mille avventure grottesche e situazione disperate. Questa seconda parte del film non può che ricordare i film alla “Tutto in una notte”, però con personaggi usciti dalle migliori commedie nere dei Coen. Questa parte del film è, non esagero, davvero esilarante, come mai era accaduto nei film di Baker (si rideva, sì, ma a denti strettissimi). Qui, al contrario, si ride di gusto! Riaffiorano dunque pretesti comici già utilizzati in precedenti film dello stesso, come la scena del vomito nell’automobile, vedi “Tangerine”, ma sviluppati meglio. 

Scopriamo, piano piano, che Igor e Anora sono più simili di quello che sembrano. Sono due anime pure, semplici, alienati da una società sfruttatrice - Ani sfruttata per il suo corpo e la sua bellezza, Igor sfruttato per la sua forza fisica. Igor, per farvi capire, guida ancora la vecchia macchina di sua nonna, nonostante il lavoro dovrebbe essere quantomeno redditizio! 

Nel finale, i due si avvicineranno sempre di più, sia spiritualmente sia fisicamente, anche grazie al piccolo plot twist finale. La scena finale, di una struggente bellezza, corona il tutto e assume un significato - che va ad interpretazione da spettatore a spettatore - senz’altro più che poetico. 

Come dicevo all’inizio, il nostro Baker riesce a mantenere il suo spirito indipendente, nonostante il successo. Ebbene, ad inizio film, nelle scene del night club, gli uomini che interagiscono con la protagonista non sono comparse, bensì veri clienti ripresi “illegalmente” (così come, illegalmente parlando, aveva girato il finale de “Un sogno chiamato Florida”, nel parco giochi). Questi uomini sono stati ripresi tramite teleobiettivo, mentre l’attrice Mikey Madison era guidata dal regista tramite un auricolare nascosto. Così come la scena post-matrimonio per le strade di Las Vegas, secondo me; anche la scelta della villa è stata improvvisata, poiché il regista l’ha trovata per caso su Google maps! Il film si colloca coerentemente nella filmografia del regista, con la tematica del “sex worker” alienato quasi sempre messa in primo piano: in “Tangerine” le due protagoniste sono due transessuali; in “Un sogno chiamato Florida” la ragazza madre usava il suo corpo come espediente per sopravvivere; infine, in “Red Rocket”, il protagonista, un ex pornoattore, tornava a casa sua, in Texas, per tornare alla normalità. C’è un filo rosso che collega tutti questi film e Baker, su questo aspetto, ha compiuto un ottimo percorso. 

Per quanto riguarda la tecnica registica, i movimenti di macchina sono perfetti e i piano sequenza con i protagonisti ripresi di spalle (ricorrenti nel suo cinema) tornano alla ribalta, raggiungendo il loro apice all’interno del night club, nella parte centrale. Le inquadrature geometricamente perfette sul lungomare sono le uniche tipicamente bakieriane presenti in questo film (Baker è un maestro nello sfruttare la luce naturale e i luoghi più particolari realmente presenti nelle varie città). 

Anche in questo caso si ha un rapporto strano osservando la storia narrata: lo spettatore desidererà vivere in quel mondo lì, non può non empatizzare con i personaggi principali, anche se il mondo che viene svelato sia profondamente marcio e alienante! Mi è sempre capitato con ogni film di questo regista e anche qui ho provato la medesima sensazione. 

Ed ecco la mia interpretazione finale riguardo a questo film…la morale della favola è la seguente: solo l’unione degli ultimi, degli emarginati, può sconfiggere le brutture di questo mondo, governato da dei pochi ricchi superficiali e/o insensibili. Il messaggio non è nuovo, ma Baker lo esprime con la grazia innata del cinema indipendente. Un po’ come se Ken Loach incontrasse prima Harmony Korine e poi i fratelli Coen. 

E io non posso che dire grazie.



UNA BATTAGLIA DOPO L'ALTRA - PICCOLA ANALISI DI UN GRANDE CAPOLAVORO

0.1 Il film parte subito in quarta, spiazza lo spettatore, mostrando da una parte le azioni del gruppo rivoluzionario “French 75” di chiara ...