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martedì 11 dicembre 2018

BOHEMIAN RHAPSODY: SUPER FILM O DELUSIONE?


E' difficile aggiungere altro a proposito del film Bohemian Rhapsody, il tanto atteso biopic sui Queen e, inevitabilmente, sulla figura di Freddie Mercury. Un film attesissimo in tutto il mondo, che ha già incassato la cifra di 600 milioni di dollari. Una cifra alta, destinata anche a lievitare, grazie anche alla pubblicità martellante che ha letteralmente obbligato ad andare al cinema i fan più accaniti, i detrattori pronti a smontare il film e i non appassionati, nauseati dalla costante pubblicità. Personalmente, mi sono approcciato al film con altissime aspettative, io che da bambino sono cresciuto ascoltando la voce di Freddie, la chitarra di Bryan May, il basso di John Deacon e la batteria di Roger Taylor. Per questo motivo non potevo che andare in uno dei migliori cinema della capitale per godere appieno della loro musica (ho anche incrociato Ricky Tognazzi, regista del film "Ultrà", premiato al festival di Berlino, figlio di Ugo). Perché si tratta di un film musicale nel vero senso del termine, ci sono tantissime canzoni rispetto ad altri biopic usciti precedentemente. Però, prima di svelare i pregi e i difetti del film, è giusto raccontare la travagliata genesi dello stesso.

Il film è nato dopo mille difficoltà. Da anni si parlava di realizzarne uno sui Queen e nel 2010 iniziò il progetto. Nei panni di Freddie era previsto Sacha Baron Cohen e la regia era affidata a Peter Morgan; l'attore, tuttavia, abbandonò le scene, causa divergenze con May e Taylor (i due membri dei Queen sono infatti tra i produttori del film). Così il film passa a Dexter Fletcher, con Ben Wisham nei panni del protagonista. Anche quest'ultimo, tuttavia, abbandona prima delle riprese perché impegnato nel film "Spectre" (ultimo capitolo della saga di James Bond). La sceneggiatura viene riscritta e la regia affidata a Bryan Singer (regista dei miei amati X - men); a Rami Malek (conosciuto per la parte in una notte al museo, ma soprattutto per Mr. Robot, nota serie tv) la parte del frontman inglese. Proprio durante le riprese i due litigano bruscamente, secondo alcuni arrivando alle mani e il tutto culmina con l'allontanamento del regista dal set (anche se tra i due sembra tutto risolto, si vocifera). Così i produttori sono costretti a richiamare Fletcher per girare le ultime scene (in ogni caso non verrà accreditato).
Molte persone, in diverse recensioni, hanno criticato maggiormente la prima parte del film, ripetitiva e rapidissima, con pochissimi tempi morti. Probabilmente hanno ragione. Anzi, personalmente aggiungerei che non viene mostrata una cosa importante: la miseria in cui vivevano i membri della band, per esempio, Mercury dormiva sul pavimento della casa di May. Sembra un successo immediato, il loro. Il film, in effetti, abusa di molte libertà storiche e temporali, specialmente nel finale. È questo, secondo me, il difetto più grande della pellicola. Per il resto è un film che divori, non puoi annoiarti, anzi è fin troppo breve, secondo me. I Queen hanno una storia molto lunga e travagliata, inserendo alcuni aspetti della vita di una persona del calibro di Freddie, non puoi fare un film di sole due ore. Tecnicamente è impeccabile e curatissimo anche quando deve usare la CGI, ovvero la computer grafica, criticata duramente da alcuni, ma notevolmente migliore, per esempio,  rispetto quella de "La grande bellezza", parliamoci chiaro. Sempre dal punto di vista tecnico, la ricostruzione storica è perfetta, anche se non si nota moltissimo, è un film girato prevalentemente in interni. I costumi sono riprodotti perfettamente, così come il trucco. La regia in alcuni momenti è ispirata (per esempio, nella scena della conferenza stampa) anche se, purtroppo, non cerca chissà quali virtuosismi. Il regista, nel nostro caso i due registi, si accontentano di fare bene il loro lavoro e basta. 

E adesso debbo spendere due parole sulla performance degli attori protagonisti, che sono stati tutti eccezionali. Ovviamente Malik sale in cattedra fin da subito, la sua interpretazione sovrasta tutte le altre ottime performance. Malik si trasforma letteralmente in Freddie Mercury (infatti, ha rivelato che non riesce ancora a staccarsi dal personaggio, come accade spesso a molti attori di film biografici), regalando al pubblico una delle migliori prove del 2018. E non esagero, sembra davvero di rivedere il cantante vivo, davanti ai tuoi occhi. Le espressioni facciali e le movenze sono impeccabili e studiate fino alla nausea. Anche quando è impegnato a cantare, lo fa benissimo (anche se la sua voce è sovrapposta a quella di Mercury e del cantante della tribute band ufficiale dei Queen). Molte persone hanno criticato la presenza dei due membri storici della band nella produzione, poiché avrebbero messo la figura del loro vecchio leader sotto una cattiva luce, nelle scene della loro separazione, uscendone puliti loro, invece. Secondo me tutte queste inutili critiche sono infondate, anzi i due artisti si concentrano molto sul lato umano di Freddie Mercury, accennando solo con poche inquadrature all'uso di alcol e droga (cosa opposta al film sui Doors, demolito da Ray Manzarek, ex tastierista della band). Meraviglioso il rapporto con Mary, l'amore di una vita per Freddie, associato spesso, nel film, alla canzone "Love of my life". Tenerissime, ho trovato, le scene con Jim, il compagno di Freddie, fedele fino alla fine. Forse May e Taylor sembrano voler "vendicarsi" di Paul, manager di Freddie, che esce sconfitto da questo film come un cattivo hollywoodiano. 

Dunque, questa validissima pellicola si unisce a una serie di biopic musicali davvero notevoli come: Control (sulla figura di Ian Curtis e dei Joy Division, quasi un capolavoro per quanto mi riguarda), Walk the line (su Johnny Cash), the Doors (sulla figura di Jim Morrison), Nico - 1988 (sugli ultimi anni vissuti da Nico), Last days e A proposito di Davis (ispirati rispettivamente agli ultimi giorni di Kurt Cobain e su Dave Van Ronk, cantautore folk).  

Bohemian Rhapsody resta un ottimo film per i più giovani, che tramite esso potrebbero avvicinarsi alla musica della band, riscoprendola e appassionandosi. Una cosa miracolosa di questi tempi. Sta anche in quest'aspetto la forza del film: appena rientrato a casa ho dovuto necessariamente ascoltarmi, ancora una volta, alcune canzoni dei Queen! Rimane un film, tuttavia, molto furbo. I fan non potranno che finire in lacrime, dopo il finale … è quasi inevitabile. Gli ultimi minuti, i più potenti, grazie alla parte centrale che si concentra un po’ di più su Freddie, sono fatti apposta per commuovere e colpire lo spettatore, anche se la storia proposta è realmente accaduta. E il film riesce nel suo scopo. Credetemi, centra in pieno l'obiettivo e nessuna critica può contrastare quest'aspetto. Perché non è questo il compito di un buon film, emozionare? 
 

lunedì 5 novembre 2018

LA NAVE DEI SOGNI

E' il 1995, quando David Foster Wallace, ancora poco conosciuto poiché il suo capolavoro - Infinite Jest - doveva essere ancora partorito, s'imbarca per la prima volta su una nave da crociera, la bellissima Nadir (ribattezzata così dal famoso scrittore americano). Il mese è quello di Marzo e il viaggio è organizzato dalla rivista Harper's, la seconda testata di cronaca più datata degli Stati Uniti. Il suo compito è uno solo, semplicissimo: pernottare per una settimana a bordo della Nadir, diretta verso i Caraibi e, in seguito, scrivere un articolo per la testata stessa. Tuttavia, da questa sconvolgente esperienza, come vedremo, David deciderà di scriverci addirittura un saggio; un saggio atipico, particolare, a tratti delirante.

Lo scrittore non esita mai quando descrive la vita sulla nave, una vita normale per tutti i passeggeri, alienante per lui. Il reportage è dunque un pretesto per scrivere una satira contro la vita sulle navi da crociera, contro il consumismo e sugli esseri umani più falsi che sentono il bisogno di essere superiori agli altri solo perché a bordo di quella nave. Viene demolito, pagina dopo pagina, ogni aspetto di questo tipo di vacanza: si parte con la critica verso i dépliant, che invitano i clienti a non fare nulla attraverso una pubblicità mirata, si passa a ogni singola persona dell'equipaggio, si arriva alla critica verso la nave stessa che ha il compito di viziare (termine sparso per tutto il libro) il passeggero.

Il libro è divertentissimo, tiene incollato il lettore alle pagine fino al suo finale, ma è anche inquietante, a tratti. Una parte sconvolgente è quella dove viene descritta la pulizia della camera. Essa, infatti, viene pulita ogni volta che David va in giro per la nave per più di trenta minuti. I camerieri in questo lasso di tempo non si fanno mai vedere, sono invisibili. Eppure, una volta rientrato, egli trova la camera in perfetto ordine, con lo stesso stramaledetto cioccolatino alla menta sul cuscino. Anche quando decide di cronometrare il tempo trascorso fuori dalla camera (il povero inviato arriverà anche a questo), non trova traccia del passaggio dei camerieri, chiedendosi come facciano a sapere la tempistica dei suoi spostamenti. Oltre alle risate inevitabili c'è anche una visione distopica della nave: l'obiettivo, infatti, è quello di far fare ai passeggeri delle attività che si trasformano in feroce competizione e viziarli oltremodo. Memorabile un passaggio del libro, quando, all'arrivo sulla nave, lo scrittore decide di aiutare il facchino portando personalmente la propria valigia. Il facchino si rifiuta perché quello è compito dell'equipaggio e il passeggero ha il solo obbligo di divertirsi.

"Viene fuori una conversazione assurda tra me e il facchino libanese perché, in questo momento ho messo un ragazzo, che a stento parla inglese, in una sorta di doppio legame; un conflitto tra professionalità ed efferenza, un vero e proprio paradosso del viziatore: << il cliente ha sempre ragione>>, contro << il cliente non deve portare mai i suoi bagagli>>"

La vita sulla nave è infernale, rituale, noiosa. Il lettore legge la descrizione di ogni centimetro quadrato della Nadir, sembra di viaggiare con Lei. Anche il lettore, concluso il viaggio ne sarà disgustato.

Questo è stato il mio primo approccio con la particolare scrittura di Wallace ed è sicuramente un ottimo punto di partenza. Meravigliose, le interminabili note che Wallace inserisce spesso, suo celebre marchio di fabbrica. Se volete un libro che sappia intrattenere, farvi ridere e riflettere allo stesso tempo, questo è il libro che fa per voi. Un libro da leggere, mentre si ascoltano in sottofondo canzoni come "la mer", del cantante francese Charles Trenet, per salpare sulla Nadir verso i Caraibi, cullati da uno dei più originali scritti degli anni novanta.  



giovedì 4 ottobre 2018

NICK DRAKE, TALENTO CREPUSCOLARE


Nick Drake non fa parte del club dei ventisette, tuttavia potrebbe benissimo farne parte. La sua storia, la sua vita e la sua carriera da musicista, ha molte analogie con quelle dei più celebri membri di questo speciale e noto club, riservato ai musicisti scomparsi, per l'appunto, all'età di ventisette anni, tra i quali vi cito, Jim Morrison, Janis Joplin, Kurt Cobain, Amy Winehouse. Perché Nick è un genio, è un talentuoso musicista, è spesso depresso e muore all'età di soli ventisei anni, nel 1974.

Nick è un ragazzo Inglese, è nato nel 1948 in una famiglia economicamente stabile, tantoché frequenterà l'università di Cambridge. Fin da piccolo studia e apprezza tutta la musica, dal rock di Elvis alla musica classica, e probabilmente, come i più grandi artisti di questo mondo, sente suoni nella sua testa che vuole riprodurre. Ama in particolar modo le canzoni di Bob Dylan, il chitarrista d'oltreoceano, che suona quel folk rock che sta iniziando a essere conosciuto in ogni angolo del Pianeta. Anche lui, dunque, si munisce ben presto di chitarra acustica e inizia a suonare. Ecco come nasce, signore e signori, il mito di Nick Drake.

Nick, però, è anche bravo nello sport. Anzi, eccelle. Potrebbe sfondare, ma questo non è scritto nel suo destino. Bensì, sceglie di esibirsi con una folk band per tutto il resto del periodo del college, si fa un nome. In quel periodo, il più fortunato della sua vita, probabilmente, scopre le droghe. Dapprima la cannabis, poi gli allucinogeni fino ad arrivare all'LSD. Nel 1969 pubblica il suo primo album "Five Leaves Left", ma non riesce a riscontrare il successo che brama. Allora Nick parte; gira mezza Inghilterra per promuovere l'album. Potrebbe farcela, ma lui - almeno secondo la parte irrazionale del suo cervello - non è in grado di esibirsi davanti a dozzine di persone. Suona, lo fa anche bene, ma non è abile a conquistare il pubblico. No, lui suona e basta e mentre lo fa, guarda per terra, in un punto fisso, come in trance, sperando che la serata finisca presto. Intanto il pubblico si ubriaca e lo abbandona. Decide di smetterla con il tour. Inizia il periodo della depressione profonda per lo sconsolato Nick che è perfino costretto a rifugiarsi dai genitori.

Passa del tempo, continua a suonare ma anche il cervello decide di abbandonarlo. Si rovina, meglio dire si brucia, si consuma come una candela, proprio come fanno i più grandi. E' trasandato, non si cura più di tanto, i capelli sono unti e spesso è senza soldi. La sua carriera non può decollare ridotto in quello stato. Addirittura dorme dove capita. Se gli va bene, è ospite a casa di amici o dei suoi genitori, quando gli va male, sta sotto i ponti. Eppure riesce a pubblicare altri due album, gli ultimi due fantastici album (tra i quali ricordo il famosissimo "Pink moon") realizzati in tutta la sua breve esistenza. Non hanno, ovviamente, fortuna, neanche questa volta. Vengono ignorati da tutti. E' sull'orlo della disperazione. Per la prima volta non riesce a registrare al medesimo tempo voce e chitarra, lo deve fare in più sessioni: questa è la fine di Nick Drake.

Muore, la mattina presto, ignorato da tutti. Tranne che dai suoi cari, anche se il cadavere sarà rinvenuto dalla madre soltanto a ora di pranzo. Molti sostengono l'ipotesi del suicidio ma biglietti non ce ne sono. E artisti come Nick Drake lasciano sempre, nel bene o nel male, qualche traccia … qualche indizio. Sappiamo soltanto, però, che il cantautore deve aver ingerito una dose eccessiva di Amitriptilina, un antidepressivo. La sorella maggiore, Gabrielle, nota attrice della serie televisiva degli anni settanta "UFO", ha affermato, durante un'intervista, di non credere minimamente nell'ipotesi del suicidio. Pensa, invece, che le cose siano semplicemente accadute. Può darsi. L'unica cosa certa, però, è che Nick muore ascoltando le note di Bach.

Di Nick non esistono filmati di concerti o altro, eccetto qualche frammento registrato dal padre quando egli era ancora piccolo. Peccato. Rimangono soltanto delle fotografie. E in esse ricorda vagamente Jim Morrison, quello sguardo perso nel vuoto, quei lunghi capelli neri, quella bellezza rara …

Poi, anni dopo, viene riscoperto dai giovani che diventano suoi fan. Diventa una divinità per molti futuri chitarristi. Diventa finalmente popolarissimo, come spesso accade quando si è morti da qualche tempo. E' presto leggenda tra i giovani. La sua opera viene studiata, analizzata, vengono pubblicate raccolte, libri e anche qualche brano inedito.  

Il suono della sua chitarra rimane unico, difficile da riprodurre. Nick pretendeva in ogni canzone soltanto la sua voce ipnotizzante e la sua cara chitarra acustica. Tuttavia, esistono molti brani con più strumenti. Questo perché spesso si lasciava convincere facilmente dalla sua etichetta discografica, avvantaggiata dalla sua depressione, dalla sua malattia. Il suono di quella chitarra, che dovrebbe accompagnare i suoi meravigliosi testi, diventa un potente mezzo che riesce a scavare a fondo nei nostri cuori, riempiti presto da una pioggia di emozioni all'ascolto delle sue canzoni. Ascoltare un brano di quel ragazzo, ancora oggi, quasi cinquanta anni dopo la sua pubblicazione, rimane un'esperienza unica, quasi mistica e stregante.

Il mito di Nick Drake, dunque, nasce soltanto diversi anni dopo la sua prematura morte. Ancora oggi egli è tenuto in vita dai fan, dalle canzoni, dai ricordi dei molti fortunati che hanno avuto la possibilità di ammirarlo. Di ammirare il genio all'opera. Nick, che sembra quasi un alieno, come quelli di sua sorella nella serie tv; Nick, un extraterrestre lasciato sulla terra da qualcun altro, forse, con il compito di insegnare un'arte sopraffina e, tramite essa, coinvolgere e appassionare altre persone. Un compito, che non è per tutti. Un compito, questo, riservato ai migliori. Lui che in vita fu un talento crepuscolare, sempre tenuto in disparte, vivendo nell'ombra, adesso può finalmente vivere e splendere, sopra di noi, come una stella nel cielo in una serata senza nuvole.


venerdì 28 settembre 2018

L'UOMO CHE UCCISE DON CHISCIOTTE: TRA SOGNO E REALTA'

"E ora dopo 25 anni di fare e disfare …" 
Si apre così il nuovo film di Terry Gilliam, "l'uomo che uccise Don Chisciotte", un progetto iniziato ben 25 anni fa; Venticinque anni di fallimenti, culminati con il documentario "Lost in La Mancha" (2002), che comprendeva le poche scene girate e il dietro le quinte di quei giorni funesti per il cineasta americano. All'inizio delle ultime - e riuscite - riprese, il cast è totalmente diverso da quello dell'ultimo tentativo di diciotto anni fa: il protagonista è interpretato da Adam Driver (Kylo Ren negli ultimi capitoli della saga di Star Wars), Don Chisciotte è interpretato da un superbo Jonathan Price (attore feticcio di Gilliam e protagonista assoluto in "Brazil"). Le riprese fallite del 2000, invece, prevedevano Johnny Depp (un po' il Sancho Panza di Terry Gilliam, in quanto attore protagonista in "Paura e delirio in Las Vegas" e salvatore, nel vero senso della parola, in "Parnassus", quando Heath Ledger morì durante le riprese, lasciando lo sfortunato regista distrutto e afflitto) nel ruolo di Toby Grisoni, il protagonista e, tra i tanti, John Hurt, scomparso da poco e giustamente citato nei titoli di coda, (lo straordinario Joseph Merrick in "The elephant man") nel ruolo di Don Chisciotte. 
La trama del film all'apparenza è semplice, ma poi, piano piano, ci ricordiamo di vedere un lavoro di Gilliam e la nostra prospettiva cambia bruscamente.
La trama è incentrata su Toby Grisoni, un giovane regista di spot per la tv, alle prese con una difficile e travagliata ripresa, nel cuore della Spagna. Il film è ambientato ai giorni nostri e quella è la stessa Spagna che Toby aveva imparato a conoscere dieci anni prima, quando girò un cortometraggio, nel medesimo luogo, su Don Chisciotte. Il film nella prima parte è pieno di flashback: vediamo un giovane Toby, aiutato dai suoi amici, intento a parlare un incerto spagnolo con lo scopo di convincere un vecchio calzolaio del paesino a interpretare il ruolo del pazzo Don Chisciotte. Come per magia, ritornando ai giorni nostri, Toby recupera una copia del suo vecchio cortometraggio che non vede ormai da anni. Soltanto qualche ora dopo la sua vita s'intreccerà ancora una volta con il vecchio calzolaio. C'è solo un piccolo problema, costui adesso è cambiato e crede davvero di essere Don Chisciotte in persona: è impazzito, come il protagonista della fortunata Novela Picaresca di Cervantes. I due partono, spinti da una serie di eventi improbabili, con il povero Toby che si trova costretto a recitare la parte di Sancho Panza per tenere sotto controllo il vecchio pazzo.
Il film diventa ben presto una sorta di road movie nelle desolate terre spagnole.


Se avete già avuto a che fare con un film di Gilliam, riconoscerete sicuramente alcune caratteristiche del suo folle cinema; un cinema capace di far sognare lo spettatore e di farlo entrare al suo interno. E' un'opera che si collega con "Brazil", che considero il suo capolavoro assoluto, come una sorta di seguito non dichiarato per le tematiche trattate: sogno e realtà. Con il passare dei minuti, e con la situazione dei due protagonisti che si fa sempre più disperata, la regia di Gilliam sale in cattedra: ritroviamo le sue inquadrature sghembe, gli angoli sparati, la cinepresa girare intorno ai personaggi. Invece, se siete tra i pochi che non hanno mai visto un film di Gilliam, esso potrebbe essere un'esperienza po' particolare poiché necessita una grande empatia da parte dello spettatore nei confronti dei suoi personaggi. Gilliam li rende memorabili, caratterizzandoli egregiamente. Il suo Don Chisciotte vi farà piangere e ridere. Inoltre, tutti i protagonisti sono marci, corrotti, chi più chi meno, siano essi musulmani, russi o spagnoli. Gilliam ne ha per tutti e non guarda in faccia nessuno, è il suo personalissimo film atteso per anni. Il prodotto è freschissimo, originale, nonostante la sceneggiatura sia stata scritta quasi trenta anni fa: la scena del bar - quando Toby spazza via i sottotitoli - è una delle più geniali degli ultimi anni, giusto per fare un esempio. E, per terminare, non posso non menzionare la sequenza finale, senza anticipare nulla, che è da antologia, con i due che vanno incontro a un sole rosso sangue, un tramonto che riempie tutto lo schermo. 
Il mondo ha aspettato venticinque anni per vedere "The man who killed Don Chisciotte". Personalmente, ne avrei aspettati anche quaranta per vedere questo ennesimo grandioso lavoro di Terry Gilliam, probabilmente il suo manifesto. 



martedì 25 settembre 2018

PERCHE' ADIEU AU CINEMA?



Innanzitutto, prima di rispondere alla domanda "perché 'addio al cinema'?", è giusto darvi il benvenuto su questo blog. E' nato un po' per caso, adieu au cinéma, non ha una storia particolare, né proverò a inventarne una. Questo spazio è nato con l'obiettivo di discutere sull'arte in generale: film, libri, musica, dipinti, biografie... Avendo molte passioni, ho provato a creare un posto dove poter parlare di tutti questi argomenti, non volevo limitarmi a uno solo. 
Dopo questa premessa è giusto rispondere alla domanda del titolo di questo primo post. Ho voluto chiamare così il blog perché stiamo vivendo un periodo particolare: la decadenza del cinema. L'argomento mi sta molto a cuore, lo analizza perfino il mio regista preferito, Tsai Ming - Liang, nel film "goodbye dragon inn", e non posso che concordare con lui. Nella mia città, per esempio, l'unico cinema presente sta vivendo una vero e proprio regresso: le sale sono piccole, i biglietti hanno un costo ormai improponibile, le poltroncine sono quasi tutte rotte e scomode, i film proiettati sono pochissimi, le eventuali scritte tradotte appaiono tagliate e quasi non si leggono, l'audio è pessimo. Potrei continuare all'infinito con altri esempi, purtroppo. 
Con la traduzione del titolo in francese, inoltre, ho voluto rendere omaggio a Jean - Luc Godard, il celebre regista della Nouvelle Vague francese, che ha diretto, tra gli altri, "adieu au langage", uno dei miei film preferiti del XXI secolo. Ecco perché ADIEU AU CINEMA

UNA BATTAGLIA DOPO L'ALTRA - PICCOLA ANALISI DI UN GRANDE CAPOLAVORO

0.1 Il film parte subito in quarta, spiazza lo spettatore, mostrando da una parte le azioni del gruppo rivoluzionario “French 75” di chiara ...