Parthenope è un inno all’estate, alla giovinezza in generale e ai corpi in particolare.
La cosa che mi ha colpito fin dalla primissima scena di
questo film, e sensazione che non mi ha abbandonato mai per 130 minuti, è il
fatto che Sorrentino abbia realizzato delle inquadrature volutamente perfette,
maniacali, degne di essere esposte al Louvre o agli Uffizi. In questi tre
anni, che lo separano dal suo precedente lavoro, Sorrentino avrà sicuramente
studiato e ristudiato ogni singola scena. L’avrà disegnata, sognata,
immaginata più volte. Ne sarà uscito pazzo. La perfezione tecnica ne è il risultato. Anche quando
inquadra un semplice muro (non scherzo mica) riesce a essere geometricamente e
visivamente perfetto.
Il film, comunque, narra la giovinezza di Parthenope, figlia
del mare e di Napoli, dal 1968 fino ai primi anni ‘80. Proveniente da una
famiglia della borghesia napoletana, la ragazza si muove e si atteggia da dea
greca, tra pose ad effetto, da spot televisivo, e frasi taglienti sempre pronte (cosa che ogni
personaggio del film le rinfaccia, tanto da diventare comico, <<hai
sempre la risposta pronta>>).
Parthenope, infatti, sembra l’incarnazione di una dea greca
in terra. E arriverà perfino a sfidare subdolamente Dio, o chi per esso lo
rappresenta sulla terra!
Non ci vuole molto a capire che: Parthenope = Napoli.
In realtà, Partenope, nella mitologia greca, era una bellissima
sirena dagli occhi tristi che con il suo canto riusciva ad ammaliare chiunque, perfino sé stessa. La
sua fine, secondo il poeta Apollonio Rodio, è da ricondurre ad Ulisse, che riuscì
a ignorare il canto della sirena e delle sue simili. La sirena allora si suicidò
e il corpo esamine arrivò fino alle foci del fiume Sebeto, che bagnava l’antica
Neapolis. Successivamente, col passare del tempo, Partenope venne scelta come
dea protettrice dai cittadini. Oggi, di Partenope, rimane una scultura
incastonata nella fontana della caratteristica Piazza Sannazaro, in città.
Nella pellicola, invece, Parthenope, partorita proprio nelle
acque partenopee, è una bellissima donna, inevitabilmente ammaliatrice, come
solo e soltanto le meridionali possono essere, ed è interpretata dalla
sconosciuta Celeste Dalla Porta, eccellente nelle scene di silenzio…e anche da
Stefania Sandrelli, nella sua controparte anziana.
La giovane è particolarmente legata a suo fratello, che ha il
tratto distintivo di soffiare sulle persone (letteralmente) come il Dio del
vento Eolo.
Il loro rapporto, dai tratti incestuosi, è un altro rimando
al mondo greco antico. Le giornate dei due trascorrono nella loro grande villa,
corredata da busti greco-romani, tra la noia borghese, le letture e l’armonia
delle onde blu del mare, fotografato in maniera eccelsa da Daria D'Antonio.
I due, più il fidanzato di lei, allora, decidono di partire
alla volta della vicina Capri, per dare una svolta all’estate. Qui la nostra
eroina incontrerà perfino John Cheever, scrittore statunitense realmente
esistito, Maestro indiscusso del racconto breve, interpretato da un Gary Oldman
forse mai così bravo. Sempre a Capri, la scena della discoteca è molto
d’effetto. La colonna sonora del film, ne approfitto, è memorabile.
A Capri ci sarà, però, un evento - una svolta - che cambierà
drasticamente le sorti dei personaggi del film, degna di una tragedia
greca.
Da quel momento in poi, dal ritorno a Napoli in avanti,
intendo dire, il film diventa un pretesto per celebrare lo sfogo dell’ego sorrentiniano,
che raggiunge vette mai toccate prima.
Se fino a quel momento il film era sì una favola
(<<Fidatevi, (vi) nascerà una femmina>>, afferma fin dalla sua
prima battuta il Commendatore), ma tutto sommato abbastanza sobria (unici elementi grotteschi presenti: l’elicottero e il baldacchino di Versailles), dalla
seconda parte in poi le scelte visive di Paolo Sorrentino assumono un tono
barocco e un ritorno alla follia grottesca de “La grande bellezza” e “Youth”,
ma ancora più in grande; elenco, vado a memoria: il colera, l'attrice
mascherata, la fusione, tutta la parte del miracolo di S.Gennaro, il figlio. E
mi fermo qui.
Alcune scene sono tuttavia riuscite, come quella che vede la
musa del regista, Luisa Ranieri, impegnata in un monologo di territoriale
autocritica.
Molto bello anche il rapporto tra Parthenope e il suo
professore universitario, interpretato da uno stanco, ma convincente, Silvio
Orlando.
Nella parte finale si accumulano le scene grottesche,
oniriche, esagerate.
Tutto quello che non amo e non sopporto di Sorrentino viene
tristemente a galla.
Inoltre, chi non ama i film dove i personaggi parlano per
frasi fatte, forse dovrebbe tenersi alla larga da tutto questo.
Il finale prolungato e tirato per le lunghe non convince
affatto; interessanti, al contrario, i titoli di coda. Fosse stato sfoltito di
una decina di minuti, il ritmo del film ne avrebbe giovato.
Azzardo anche che, fosse stato solo un mediometraggio
(dall’inizio fino alla parte a Capri inclusa, ovviamente), il film sarebbe
stato indimenticabile, non esagero.
Sorrentino, dunque, tirando le somme, non riesce a contenersi
come aveva fatto nel precedente e stupendo “È stata la mano di Dio”, dove il
grottesco c’era, ma era contestualizzato nel folklore napoletano (vedi il Munaciello). Un peccato, però, non aver visto quel film sul grande schermo, rubato dall’avidità di Netflix;
una fortuna, al contrario, aver goduto di questo film sul grande schermo.
Qui, in compenso, c’è una perfezione tecnica da far invidia a
un maestro dell’inquadratura del calibro di Wes Anderson.
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